Europa, Schengen e ipocrisie


Un Consiglio straordinario dei ministri degli Interni dell’Unione si è ieri per discutere del trattato Schengen, firmato nel 1985 e  entrato in vigore a partire dal 1995. Questo trattato, che porta ormai i suoi anni sulle spalle, è stato messo in discussione recentemente a seguito del battibecco tra Francia e Italia a causa dei cittadini tunisini che hanno raggiunto in grande numero l’Italia a seguito dei disordini in Nord-Africa.

Der Standard – Vienna – Oliver Schopf

Il trattato Schengen prevede la libera mobilità dei cittadini all’interno degli stati firmatari. Tanto per farla chiara, il trattato è quello che ci permette di andarcene tranquillamente in Francia, Germania, Austria, Slovenia e da lì altrove senza neanche doverci fermare alla frontiera né esibire il passaporto o la carta d’identità in treno. È all’interno dello stesso trattato che si prevede la libera circolazione non solo dei cittadini degli stati membri, ma anche di quei cittadini che, provenienti da altri paesi altri, ottengano un visto.

E’ stato questo principio a essere stato messo in discussione da Sarkozy, che si è rifiutato di accettare i cittadini immigrati tunisini che avevano ricevuto un visto provvisorio dall’Italia. Le forze dell’ordine hanno letteralmente fermato queste persone a Ventimiglia, impedendo loro di passare il confine.

Così facendo, Francia e Italia hanno messo in crisi l’intera Unione Europea e il trattato che vige ormai da diversi anni tra gli stati dell’area Schengen. Molti hanno criticato la scelta del governo Italiano di rilasciare i permessi di soggiorno. Cosa doveva fare? Se i centri di accoglienza – giusto per chiamarli con un nome carino eh  –  erano già stracolmi e già erano stati istituiti delle tendopoli temporanee? Lasciare i tunisini girare senza permesso di soggiorno, perciò rendendoli illegali?

Sicuramente la nostra burocrazia non è delle migliori, ma in una situazione di emergenza di questo tipo non è tanto facile criticare.

Sia Berlusconi che Napolitano hanno invocato l’aiuto dell’Unione Europea fin dall’inizio degli sbarchi che hanno seguito le rivolte nel mondo arabo, senza ricevere alcuna risposta. Al rilascio dei permessi di soggiorno temporanei per gli arrivati, la Francia ha accusato l’Italia di aver violato l’ideologia del trattato di Schengen, permettendo  – ipoteticamente  – agli immigrati di spostarsi liberamente all’interno dell’area Schengen.

Il polverone sollevato da Sarkozy ha avuto seguito, considerato il generale spirito anti-europeo del momento, alimentato dalla crisi in Grecia e dai fallimenti della politica economica dell’Unione Europea. Analisti, giornalisti e politici sono tornati ad interrogarsi sulle funzioni ed efficacia dell’Unione.

La Danimarca non ha perso tempo, dichiarando l’11 di Maggio che ristabilirà controlli sui suoi confini con la Germania e Svezia.

Questo è un grande segno di debolezza, che rischia davvero di mettere in crisi lunghi anni di lavoro e di cooperazione. Se davvero si dovessero rimettere in discussione i trattati Schengen e ristabilire i confini tra i paesi firmatari, potrebbe davvero essere un grande passo indietro, nonché segno di rassegnazione anche alle pressioni dell’elettorato xenofobo.

I vertici europei potrebbero d’altro canto agire diversamente e iniziare un dialogo serio e produttivo per progettare un sistema comune di controllo dei confini esterni. Ad oggi infatti i criteri di rilascio di visti e di concessione di asilo politico cambiano enormemente da stato a stato, senza contare la differenza di posizione geografica e perciò di gestione dell’immigrazione illegale.

Tornare indietro significherebbe davvero dimostrare il fallimento del progetto Europeo, che ci hanno propinato in ogni salsa negli ultimi 20 anni. Significherebbe anche un tradimento di noi elettori e cittadini, trattati come pedine che si vedono tracciare e cancellare confini.

 

 

Patriottismo


Forse del patriottismo serve. Per sentirsi più responsabili verso le istituzioni comuni, verso i luoghi comuni e verso i soldi comuni.

Serve perchè tutti si sentano inclusi nel progetto dello stato, perchè quando ti senti incluso hai voglia di spendere tempo, energia e forza per una causa. Bisogna sentirsi messi in causa per mettersi in causa. Bisogna sentire affinità, senso di identità per decidere di curarsi di un ambiente, di una società, di un luogo.

Forse un pò di patriottismo ci vuole. Per rivendicare quelle istituzioni che qualcuno ha deciso di farci credere fossero nostre e  che oggi ci rappresentano, come un gruppo di persone unite dallo stesso territorio e dallo stesso organo di controllo e coordinazione. Ce lo hanno fatto credere fino ad adesso ed è reso di fatto nello scenario internazionale e nelle nostre relazioni personali di ogni giorno.

Ci hanno insegnato ad avere una sola lingua, a sentirci vicini culturalmente, a credere negli stessi miti storici: persone e fatti. Ci hanno insegnato ad essere un popolo.

Non ce lo dimentichiamo adesso, proprio adesso che questo popolo viene insultato e deriso dai suoi stessi governatori, in quanto tale: unico.

Un popolo, se unito, ha potere; potere di cambiare ciò che è considerato suo rappresentate. Per questo, ci vuole un pò di patriottismo. Solo e soltanto per questo. Per volersi del bene e volere del bene.

Autonomia democratica e quieto vivere


Solo la settimana scorsa si concludeva a Diyarbakır – nel sud-est della Turchia –  il ciclo di incontri organizzati dal Congresso Democratico Poplare, un’organizzazione politica stabilitasi per dare voce ai disagi del popolo curdo. Durante la due-giorni è stata redatta una bozza per “Un modello di autonomia democratica del Curdistan”. Al contrario di ciò che si può pensare guardando al titolo, il modello non prevede la creazione di un nuovo stato e lo smembramento della Turchia – come molti estremisti di destra nel paese temono. Il modello prevede bensì un’autonomia “senza stato”. Nel testo si può leggere che “l’autonomia democratica punta a democratizzare la Repubblica (Turca), modificando la rigidità dello stato-nazione, il quale non soddisfa i bisogni del popolo del paese e punta inoltre ad eliminare gli impedimenti che il sistema di stato-nazione crea davanti allo sviluppo politico, sociale, economico e culturale delle persone”.

Ciònonostante, l’ambiguità della bozza non lascia intendere precisamente come allora l’area si renderebbe autonoma. Si legge che verranno istituiti dei dipartimenti indipendenti per la politica, l’economia, la cultura, la diplomazia, la legalità, l’ecologia e il sistema di difesa.

A distanza di meno di una settimana da questo incontro, le parole del Ministro Egemen Bağış. I curdi non hanno mai chiesto l’indipendenza. Si è poi perso in solite retoriche da buon sostenitore del multiculturalismo, dicendo che “diverse etnie e culture possono convivere insieme pacificamente”.

Peccato che questo “pacificamente” ancora non è in atto e il suo contrario è dovuto ad una completa negligenza all’interno della legislazione della Repubblica verso la cultura, la lingua e la civiltà curda.

In Turchia gli individui che dichiarano il Curdo come la loro lingua madre sono il 13% della popolazione del paese. Nonostante ciò, tale lingua è severamente vietato durante tutta la scuola dell’obbligo, per svolgere campagne elettorali, in corte davanti al giudice e fino a poco tempo fa anche in prigione tra detenuti e parenti in visita. Il Curdo era inoltre assolutamente malvisto in qualsiasi ufficio pubblico.

Una lingua assolutamente ignorata dallo stato, non menzionata della Costituzione e anzi spesso calpestata come “straniera” (straniera rispetto a cosa poi non si sa).

Il Curdo è in Turchia una lingua fantasma e solo recentemente, all’inizio del 2010, è stata permessa l’apertura di emittenti televisive in questo idioma. Una mossa che è stata considerata come un’apertura necessaria per correre in contro ad i parametri per l’accesso all’Unione Europea.

Intanto, la lingua si perde di generazione in generazione. I Curdi che vivono nelle grandi città cercano di non disturbare il quieto vivere, preferendo nascondere o dimenticare le loro tradizioni. Le famiglie preferiscono vedere i figli integrati. Un processo di selezione naturale, se non fosse per il fatto che di naturale c’è poco e niente nella scelta delle lingue ufficiali di un paese.

Il processo che ha portato a questo percorso è ormai avviato e difficilmente potrà cambiare. In alcune zone, dove ancora la lingua è viva più che mai, si potrebbe evitare lo stesso errore e non gettare ombre su culture e tradizioni.

Ma purtroppo i politici e i giornalisti in Turchia che inneggiano al quieto convivere si muovono lenti come pachidermi nel cecare di accellerare il recupero di tanti anni di oppressione e discriminazione. Troppo lenti per essere credibili.

Un’anima per l’Europa?


Si è conclusa oggi la seconda giornata di “A Soul for Europe”, presso il Tophane-i Amire Culture Center di Istanbul, Turchia. Tre giorni di dibattito su globalizzazione, cultura e Europa. Proprio mentre Istanbul ancora festeggia il suo stato di Capitale Europea della Cultura 2010, professori, economisti, giornalisti, business man e la cosidetta società civile si incontrano, sotto le antiche arcate del palazzo Topane – i. Il Forum, nato a Berlino nel 2004, ha come scopo quello portare figure provenienti dalle imprese e dai centri culturali insieme per discutere del ruolo della cultura nella formazione e sviluppo del progetto di integrazione Europea.

Come tante conferenze, è iniziato in modo standard, con cuffiette per la traduzione dal turco all’inglese, dall’inglese al turco, cartellini di riconoscimento luccicanti e un bel tavolo con tanto di schermo antistante dove accogliere gli ospiti e renderli protagonisti delle tre giornate di dibattito.

Ciònonostante, oggi, la prima giornata aperta al pubblico, si è rivelata alquanto insolita. Interventi di vario genere hanno interrotto il normale scorrere di una tradizione conversazione conferenziale dove già tutti sanno cosa sarà detto e quale sarà la conclusione (“Andate in pace e alla prossima”). Fin dal primo dibattito, l’incontro ha assunto sfumature inverosimili e nervature di scoppiettante polemica. A partine da  Hayrettin Karaca ( membro fondate di TEMA, fondazione turca per combattere l’erosione del terreno, per la reforestazione e protezione di habitat naturali), il quale a fine dibattito, si è lanciato in un’invettiva vecchio stile contro il capitalismo odierno ed in memoria dei vecchi tempi, quando si stava meglio e si pensava più agli altri. Il signor Karaca, che si è rifiutato di usare le cuffie per ascoltare la traduzione ed ammette – a causa degli anni – di non essere stato in grado di capire neanche gli interventi avvenuti in lingua turca, ha conquistato un buon venti minuti di scena per raccontare agli ospiti anneddoti di una Turchia che ancora non si chiamava tale. Più tardi, durante la sessione pomeridiana, Karaca si è sbilanciato decisamente troppo, condannando l’UE come possibile annientatrice della cultura e nazione turca e invitando il moderatore a parlare turco invece di inglese.

Il signor Karaca comunque non è stato l’unico  partecipante turco ad esprimere un disagio che sicuramente hanno sentito in molti. E’ sicuramente paradossale ritrovarsi ad Istanbul a discutere di Europa pensando di evitare temi come immigrazione, religione, intolleranza e discriminazione. Più tardi anche lo scrittore e poeta turco  Hilmi Yavuz ha portato l’attenzione del dibattito verso la questione turca, accennando alla frustrazione di un paese a cui è stata promessa una partecipazione che tarda e si fa pregare ad arrivare.

Sicuramente la candidatura della Turchia all’Unione Europea non voleva essere tema del dibattito. D’altro canto come biasimare Elif, artista turca che vive a Roma da 5 anni, che prende il microfono e chiede agli invitati di parlare dei veri problemi dell’Europa, come la discriminazione verso i “non-comunitari” e i problemi di crescente intolleranza e razzismo verso gli immigrati? Invece l’intervento di Elif, come quello di Hilmi e quello di Karaca vengono pressochè ignorati, come parentesi nel pulito e politically correct dialogo tra i “veri” europei.

Un incontro promettente, che rischia di mancare di attenzione verso il paese che lo ospita, che pure la chiede.

La rivolta degli invisibii


Un fenomeno nuovo sta emergendo in Italia. Una naturale conseguenza della grande ondata migratoria che ha investito il nostro paese, portando nuove  – e vecchie – problematiche a galla.

Si rivolta finalmente il popolo degli invisibili. Di coloro che lavorano per il nostro paese in condizioni quasi da schiavi, ricoprendo ruoli essenziali per il procedimento della nostra economia e ciònnononstate non ricevono un minimo di considerazione sociale.

In barba all’immobilismo degli italiani, che da anni ormai subiscono senza fiatare, i nostri nuovi compaesani, molto spesso non riconosciuti e non esistenti per le autorità, decidono di farsi vedere, di farsi sentire e manifestare la loro presenza ed il loro disagio.

Cosa significa questo agli occhi degli italiani cosiddetti “veri” e autoctoni? Come queste manifestazioni possono influenzare la nostra visione dell'”immigrato”? Cambia qualcosa vederli sfilare come facciamo anche noi a volte, chiedendo più dignità e un pieno rispetto dei diritti come lavoratori? Servirà forse a farli apparire sotto una luce più umana? Stimolerà qualche risposta emotiva di solidarietà?

La strada verso il rispetto dei diritti dell’immigrato è lunga, ostacolata dalla distinzione legale di “regolare” o “irregolare”, “comunitario” o “extra-comunitario”. Troppo spesso viene dimenticata la carta dei diritti umani, a favore della legislatura nazionale, per la quale chi non è “regolare” non può essere titolare di tali diritti.

D’altronde, sono i confini nazionali che contano. Trapassare questi confini senza chiedere il permesso e ricevere l’autorizzazione significa troppo spesso perdere il diritto di essere tutelato: finire per essere invisibile.